Un primo grande passo in avanti avviene con la legge 118/1971, la quale stabiliva la possibilità di “inserimento” degli alunni con disabilità, su iniziativa della famiglia, nelle classi comuni. Con questa legge non si parla di “integrazione” ma solo di “inserimento”, in quanto all'epoca il presupposto era soprattutto quello di voler dare al bambino in situazione di handicap la possibilità di stare con gli altri e di partecipare alle attività di tutti, indipendentemente da quelli che potevano essere gli obiettivi individuali ed i metodi di apprendimento più opportuni per il singolo. Poi con l’affinarsi della ricerca pedagogica e didattica, che sottolineava sempre di più la necessità di percorsi di scolarizzazione di questi alunni insieme ai compagni, il semplice “inserimento” non era più sufficinente. Così si cominciò a parlare, verso la metà degli anni Settanta, di “integrazione” per significare che gli alunni con disabilità non erano solo presenti in classe, ma si collegavano all'attività didattica svolta in classe insieme ai compagni, grazie alle strategie, ai metodi e sussidi didattici individuate dall'insegnante di sostegno con la collaborazione degli insegnanti curricolari. E’ questo essenzialmente il contenuto della Legge 517/77, che a differenza della legge 118/71, limitata all'affermazione del principio dell'inserimento, stabilisce con chiarezza presupposti e condizioni, strumenti e finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Anche di integrazione si parla nelle nella legge quadro sull'hanticap n° 104 del 1992, il punto di riferimento centrale per tutte le persone con handicap.
A partire però dalla metà degli anni Novanta ci si cominciò ad interrogare sempre più frequentemente se l’integrazione scolastica non dovesse considerarsi un fenomeno biunivoco, cioè nel senso che essa non consistesse solo nell’adattamento dei comportamenti degli alunni con disabilitàà a quelli dei compagni non disabili, ma se anche questi non dovessero adattarsi anche a comprendere ed accettare i comportamenti dei compagni con disabilità.
Riesumando una interpretazione sessantottesca si cominciò a dire che il termine “integrazione scolastica” ricordava troppo quello di “integrazione nel sistema”, che aveva certamente un valore negativo, svuotando tale termine della valenza positiva che aveva avuto all’inizio ed anzi facendo assumere un significato riduttivo di perdita di autenticità e di libertà. Così , sotto l’influsso della letteratura sociale e culturale di origine anglosassone si venne affermando il termine inclusione, a significare la reciproca permeabilità dei rapporti fra alunni con disabilità e loro compagni.
La consacrazione universale del termine inclusione avviene con le “Linee guida per l’inclusione dell’Unesco” (Guidelines on Inclusion in Education, 2009), mutuate anche dalla “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” dell’ONU (2006), ratificata dall’Italia con la L.18/2009, documenti che individuano in tre fattori le ragioni per lo sviluppo dell’educazione inclusiva:
- la ragione educativa: le scuole inclusive debbono utilizzare strategie e metodi didattici in grado di intercettare/promuovere le differenze individuali, a vantaggio di tutti gli studenti;
- la ragione sociale: le scuole inclusive si caratterizzano per la capacità di modificare i comportamenti dei loro operatori nei confronti della diversità, presupposto per la creazione di ambienti sociali meno discriminanti;
- la ragione economica: sostenere scuole che educano gli alunni tutti insieme è meno costoso che investire in una filiera di scuole, “specializzate” secondo i diversi bisogni educativi degli alunni.